Articolo di Piero Del Grande
Passeggiando per il centro di Firenze, ma per la verità anche in zone limitrofe, è facile notare delle piccole aperture (buche) nelle mura di antichi palazzi nobiliari, a circa un metro dal piano stradale, all’altezza di quelli che erano i loro antichi fondachi. Queste, più o meno identiche per forma e dimensione, quasi a rappresentare un canone architettonico predefinito, altro non erano che i cosiddetti “tabernacoli del vino” ovverosia dei curiosi, minuscoli e caratteristici esercizi commerciali adibiti alla mescita e alla vendita al dettaglio di quello che è considerato il nettare degli dei.
A partire dalla fine del ‘400 e fino al ‘600 il grande commercio delle stoffe e dei panni di lana, motore trainante dell’economia e della “industrializzazione” (termine naturalmente da utilizzare tra virgolette) medievale e rinascimentale a Firenze incomincio a subire la forte concorrenza dei paesi nordeuropei (Inghilterra in particolare, che potrebbe essere paragonata, con tutto il rispetto, alla Cina dei nostri giorni) provocando un progressivo spostamento degli investimenti di capitali verso il più sicuro e tranquillo settore fondiario. Gli abili mercanti fiorintini si trasformarono pertanto in altrettanto abili proprietari terrieri e puntarono sulla produzione agroalimentare, e specialmente sul vino: prodotto che scorreva a fiumi nelle città toscane, tanto da favorire (marketing ante litteram?) anche la fioritura di una vivace e gioiosa letteratura popolare, fatta di proverbi, liriche e poesie. E così che avendo ottenuto a quel tempo permessi di vendita diretta nacquero al piano terreno dei loro palazzi le cosiddette buche del vino, che ancora oggi sono visibili ad occhi attenti nel tessuto urbano cittadino e dell’immediato contado e che testimoniano un curioso, particolare e forse unico fenomeno avvenuto nel nostro territorio.
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